Leggo un intervento su Linkedin di cui riporto una frase significativa: “Perché noi psicologi dobbiamo essere attaccati e criticati per tutto? Perché dobbiamo essere bombardati di “tu che sei psicologo non dovresti”?
Ciò che intendeva rivendicare, giustamente, l’autrice dell’intervennto era la possibilità, per uno psicologo, di potersi esprimere liberamente come qualsiasi essere umano senza essere appunto bombardato da una serie di “prescrizioni dovute al ruolo”.
Una lettura di questo bombardamento può essere che si tratti della conseguenza di quanto l’immaginario collettivo ha depositato nel ruolo dello psicologo: una idealizzazione della capacità risolutiva della “scienza psicologica” che si basa su aspettative altissime di soluzione del problema, una sacca del paradigma positivistico – che prometteva effetti miracolosi sul benessere delle persone – in cui nemmeno le scienze “dure” si riconoscono più. Non entro qui nel merito di cosa potrebbe aver determinato questa fiducia incondizionata. Tuttavia, se si sposa questa lettura, se ne potrebbe trarre la seguente conclusione: la scienza psicologica, concretizzata nella figura dello psicologo, ha di fatto un potere enorme da gestire, potere attribuito da queste “aspettative popolari”. Il punto non è se sia giusto o no. Il punto è: preso atto di ciò, come decido di gestire questo potere?
Qualcuno può decidere di “entrare nella parte” e di giocare fino in fondo questo ruolo “onnipotente” con il rischio che un benchè minimo fallimento ha come conseguenza la caduta dalla torre e l’accanimento di chi si è sentito deluso da questo fallimento. Qualcun’altro può decidere di svelare l’equivoco: la scienza psicologica, individuata nella figura dello psicologo, non ha tutte le possibilità e capacità che dall’immaginario collettivo gli vengono attribuite.
Al di là delle dichiarazioni di intenti, chi optasse per la seconda – dal mio punto di vista l’unica con qualche possibilità di efficacia – ha anche il compito di trovare un modo concreto di comunicare apertamente l’illusorietà di questa convinzione e la disposizione, insita in questa opzione, a dividere la responsabilità del farsi carico del benessere interiore delle persone con qualcun’altro.
Chi patisce l’opprimenza della responsabilità conferita dal potere dispone di svariati modi di alleggerirsi. Quello a cui io sono più affezionato è, appunto, di dividerla con altri, magari aprendosi, venendo al caso di specie, all’esperienza di sedute co-condotte con altri professionisti – per esempio, assistenti sociali, educatori, pedagogisti, medici, consulenti pedagogici, couselor, mediatori famigliari, insegnanti, avvocati – oppure sedute alternate con gli stessi. Personalmente quella della co-conduzione o della conduzione alternata tra differenti professionalità è un’esperienza molto ricca e soddisfacente per me e i colleghi che la condividono con me, oltre che una opportunità di offrire alle persone una visione più ampia della loro situazione.
Certo, alleggerirsi di una responsabilità comporta anche rinunciare a una parte di potere e, con essa, a una di lavoro. E qui si apre un altro capitolo, che qui non voglio trattare ma che potrebbe dare qualche spunto di riflessione a chi, come l’autrice dell’intervento da cui abbiamo iniziato, non si capacita di tanto livore verso gli psicologi, sui quali questi attuali “carnefici” hanno in precedenza riposto aspettative salvifiche più grandi di loro, che non vanno assecondate nemmeno tacitamente, se si vuole evitare questo rischio.