Relazioni d'aiuto

Prima o poi tutti noi abbiamo ricevuto una richiesta di aiuto da qualcuno.

Il ventaglio è molto ampio e possiamo essere coivolti da una richiesta di aiuto in qualità di passanti, conoscitori o esperti di qualcosa, colleghi e, nella sfera più intima, amici, figli, genitori, partner. Dal turista che ci chiede un’informazione, all’amico che ci chiede un consiglio sentimentale, a un adolescente disorientato, a un vecchio genitore che ha bisogno della nostra vicinanza in un momento di tristezza, di dolore o di malattia, tutti noi siamo sollecitati, volenti o nolenti, a dare il nostro individuale contributo nel sostenere la condizione di limitatezza che caratterizza l’essere umano rendendolo fisiologicamente bisognoso di aiuto. Questa condizione è sperimentatata da tutti già dal momento della nascita, che, senza l’aiuto dei genitori o di figure adulte, si trasformerebbe velocemente in impossibilità di sopravvivenza.

Aiutare è dunque una delle attività in cui siamo coinvolti da sempre e quotidianamente e per la quale l’essere umano è tendenzialmente predisposto. Questo, nella maggior parte dei casi, ci riesce facilmente e ci può dare anche una sensazione di soddisfazione.

Tuttavia ci sono situazioni dove aiutare può diventare un problema anche molto grande. Pensiamo, ad esempio, a chi rifiuta il nostro aiuto pur essendo in stato di bisogno o a chi ci chiede aiuto in termini per noi impossibili da realizzare. Un parente affetto da malattia grave o mentale, un figlio adolescente che ci sembra allo sbaraglio, un congiunto che usa sostanze o che mette in atto comportamenti a rischio, un caro amico che sta passando un momento molto difficile per una separazione o per un lutto. Il dovere o il desiderio di aiutare, nei casi citati, ci può portare a sensazioni di frustrazione, disagio, dolore, disperazione, rabbia e può innescare conflitti anche molto aspri.

In questi casi, che spazio c’è per l’aiuto, cosa significa “aiutare”, come è possibile farlo, fino a dove ha senso spingersi?