“La libertà del proprio Sé è più forte di qualunque piano prestabilito, e ogni soggetto è disposto per attuarla anche a distruggersi come individuo, se questo ne garantisce l’espressione.”[1]Freud sosteneva che si potesse pensare alla psicoanalisi e alla pedagogia come se una fosse l’altra in quanto entrambe interessate alla questione di chi sia l’Altro. Entrambe si trovano immerse in processi caratterizzati da vissuti latenti che viaggiano attraverso la relazione in tutte le direzioni e risuonano nelle persone coinvolte. La base su cui poggiano questi processi è di natura affettiva, rendendoli dunque in gran parte incontrollabili. “La questione di chi sia l’Altro accomuna i due saperi nella misura in cui la qualità del processo educativo, messo in campo a partire dall’infanzia, ha delle relazioni profonde con quel nucleo di infanzia che resiste, soffre, patisce e chiede ascolto nel processo analitico dell’adulto.”[2] Il rapporto tra le due discipline risulta dunque molto stretto già dagli albori, inducendo Freud a ipotizzare lo sviluppo della psicoanalisi da tecnica della cura individuale a un progetto pedagogico rivolto alla società nella sua totalità[3]. Il tema dell’incontro con l’Altro e con tutte le sue rappresentazioni – ivi comprese quelle della rappresentazione che noi stessi abbiamo di noi - nella mente del paziente e dell’analista, crea una moltitudine di interlocutori, reali e pensati, di cui è necessario tener conto. Perché questo incontro sia possibile in modo autentico e libero dai meccanismi individuati dalla psicoanalisi che ci allontanano da ciò – in particolare, negazione, scissione, proiezione, identificazione proiettiva - è necessario poter entrare in contatto con la propria storia per poterla integrare nel nostro “oggi”.Nel 1908 Ferenczi scrisse “Psicoanalisi e pedagogia”, un articolo nel quale segnalava quanto dannoso fosse per i giovani un approccio conservatore all’educazione, auspicando un cambio di ottica nel quale fossero integrati i principi psicoanalitici[4]; Anna Freud lavorò molto sul tema del rapporto tra psicoanalisi e pedagogia, sostenendo che la prima, applicata agli adulti, potesse influire positivamente sullo sviluppo della personalità del bambino[5]. Per arrivare ai giorni nostri, Brainbridge e West utilizzano la metafora dei divari che intercorrono tra psicoanalisi e formazione per indicarne la distanza, affermando che si tratta di un fenomeno multidimensionale citando, a titolo di esempio “[…] la mancata comprensione, da parte di molta letteratura pedagogica, di cosa effettivamente sia la psicoanalisi, o la crescente discrepanza tra le attuali tendenze educative e la visione psicoanalitica di ciò che sarebbe effettivamente necessario.”[6] Se dalla metà del XIX secolo a oggi la pedagogia nera ha potuto o dovuto lentamente lasciare spazio, sia nel dibattito tra specialisti sia nella sensibilità comune, a un sapere pedagogico realmente attento a produrre pratiche educative mirate ai bisogni e all’emersione dei significati delle persone a cui si rivolge, se la pedagogia sta provando ad affrancarsi sempre più dall’immagine di mera funzione di una società controllante per riconquistare la sua originale vocazione a essere con l’Altro per legittimare il diritto del Sé a esprimersi senza distruggersi, ciò è stato possibile anche grazie al sapere psicoanalitico, in special modo attraverso autori che si sono allontanati dalla sua interpretazione più dogmatica.[1] Stefania Ulivieri Stiozzi, Il counselling formativo, Franco Angeli, 2013, pag. 37[2] Ibidem, pag. 37[3] Citato in nota 18 di (Ulivieri 2013), pag. 37[4] Ferenczi S., L’enfant dans l’adulte, Petite biblioteque Payot, Paris, 2006[5] Brainbridge A., West L., (a cura di ), Educazione e psicoanalisi, IPOC, Milano, 2017, pag. 122.[6] Idem, pag. 275

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